BIMBI ED EMOZIONI

Molti conoscono l’importanza delle regole per i bambini. Le regole aiutano i più piccoli a dare un senso al mondo che li circonda, a discernere il giusto dallo sbagliato, a proteggere e a far sentire al sicuro, ad accompagnare alla crescita, all’autonomia fino al debutto nella società. 

In pochi, però, riconoscono il ruolo fondamentale delle regole per uno sviluppo emotivo armonico del bambino. Le regole infatti, per quanto faticose, aiutano anche a stare bene.

Essere felici vuol dire “stare bene”?

Un piccolo spunto per riflettere insieme… 

Osserva le fotografie. Quali sono i bambini che sembrano “stare bene emotivamente”?

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La grande maggioranza delle persone risponderà i bambini delle fotografie numero 3 e 4. 

Oggigiorno l’idea di benessere è associata alla felicità: stiamo bene se siamo felici. In realtà, un bambino che sta bene emotivamente, è un bambino le cui reazioni emotive sono in linea con lo stimolo che le attiva. Ogni reazione è la conseguenza ad uno stimolo mediata dai vissuti emotivi e, man mano che si cresce, anche dalla valutazione cognitiva. Il pianto di un bambino piccolo di fronte al genitore che gli toglie il tablet (fotografia n.2), privandolo così di qualcosa che procura piacere e divertimento, è un pianto giustificato perché in reazione a qualcosa di sgradevole per lui. Gli eccessi d’ira, come il buttarsi per terra, agitarsi e piangere disperatamente, sono tipici dei bambini fino ai 3-4 anni ma poi, con lo sviluppo del linguaggio e la maturazione cognitiva, gli “agiti” lasciano il posto “alla parola”. Il pianto disperato di un bambino più grandicello che si trova a vivere la stessa situazione potrebbe essere, invece, una reazione smisurata e poco equilibrata in quanto ci si aspetterebbe da lui una reazione più controllata e mediata dalle competenze acquisite con la crescita.

Anche ridere e gioire per riuscire ad andare in bicicletta senza appoggiare i piedi sui pedali (fotografia n.4) può essere una reazione sana ed equilibrata! Ci è impossibile, invece, riconoscere e identificare come bambini equilibrati o poco equilibrati emotivamente, i bambini delle altre fotografie in quanto non conosciamo gli eventi che hanno scaturito le loro reazioni emotive.

I campanelli d’allarme

Molteplici sono le funzioni delle emozioni. Tra tutte, la più importante è quella di segnalare che si è verificato un cambiamento dello stato del mondo interno o esterno. L’emozione è un “campanello d’allarme”, avvisa della rottura di un equilibrio interno e spinge l’uomo ad agire per raggiungere il proprio obiettivo e quindi lo stato di benessere. La paura ci protegge dai possibili pericoli, la rabbia ci spinge all’autodifesa, la sorpresa all’esplorazione, la gioia all’affiliazione… le emozioni ci garantiscono l’adattamento e la sopravvivenza!

Le emozioni sono anche i motivatori dei nostri comportamenti e i facilitatori delle nostre relazioni: comunicando all’altro il nostro stato affettivo, permettono a chi ci sta accanto di prevedere il nostro comportamento.

La famiglia come “palestra emotiva”

La famiglia è un contesto protetto e sicuro in cui poter fare esperienza di un ampio ventaglio di vissuti, anche i più “spiacevoli”.

I “no” dei genitori offrono al bambino la possibilità di conoscere anche le emozioni “sgradevoli” (quali rabbia, tristezza e frustrazione) e quindi di iniziare a comprenderle e a “digerirle”. La famiglia è una “palestra emotiva”, un contesto protetto e sicuro, che ha il compito di allenare il bambino a esperire anche tali emozioni per aiutarlo a far pratica e a individuare strategie funzionali per farvi fronte; solo così, infatti, un domani il bambino sarà pronto a gestire il proprio mondo emotivo anche nei contesti meno familiari, ad esempio la scuola. 

L’esperienza aiuta a crescere e a prepararsi per affrontare il mondo!

Di fronte ad un divieto imposto dai genitori, le esperienze precedenti porteranno il bambino, nel corso del tempo, a capire che alcune reazioni, quali urlare e battere i piedi, non servono a ottenere ciò che desidera. Se una situazione simile si ripresenterà a scuola, il bambino prima di tutto sarà in grado di riconoscere che il vissuto emotivo è simile a qualcosa di già provato, di non pericoloso perchè passeggero e sopportabile; successivamente, anche grazie allo sviluppo cognitivo, capirà quali strategie mettere in atto per farvi fronte in base alle esperienze pregresse.

Le emozioni spiacevoli attivano e promuovono numerose skills: 

  • il pensiero critico (l’abilità di saper analizzare le informazioni, le situazioni ed esperienze in modo oggettivo, distinguendo la realtà dalle proprie impressioni e pregiudizi);
  • la gestione dello stress (riconoscere il proprio stato di stress e intervenire per modificare lo stato in cui si è, agendo sull’ambiente oppure sui propri pensieri, emozioni e reazioni abituali); 
  • il problem solving (l’abilità di saper rispondere nel miglior modo possibile a una determinata situazione critica); 
  • il pensiero creativo (trovare alternative originali nelle situazioni difficili o in situazioni nuove e sconosciute).  

Tollerare la sofferenza e il dispiacere dei figli è un compito difficile per i genitori; spesso suscita sensi di colpa e sentimenti di inadeguatezza. Se però giustificata e finalizzata a tenere i più piccoli al sicuro, è importante ricordare che un bambino che non ha mai provato rabbia o tristezza non è un bambino che sta bene, ma è un bambino impreparato ad affrontare la vita reale e il confronto con se stesso e con l’altro. Il bambino che sta bene, invece, avendo sperimentato molteplici emozioni, non si spaventa di fronte alla rabbia o alla tristezza, non si “disintegra” perché sa di poterle affrontare trovando risorse in sé.

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PERDITA DI MEMORIA: NON TI TEMO, MA TI COMBATTO!

Con l’avanzare dell’età molte persone iniziano a fare i conti con una memoria che appare non più impeccabilmente affidabile. Dove avrò messo le chiavi? Come si chiamava quel collega del reparto accanto? Dove avrò messo la lista della spesa?

Semplice ritrovarsi in queste piccole dimenticanze. Niente paura di fronte alla consapevolezza che qualcosa ci sta sfuggendo. Notare la frequenza con cui la memoria sembra abbandonarci è il primo passo importante per fare qualcosa. Sì, perché la ricerca in ambito scientifico ha ampiamente confermato che queste dimenticanze possono essere contrastate. In che modo?

Attraverso attività che allenano e mantengono giovane e attiva la nostra memoria. Non siamo destinati a diventare sempre più smemorati!

Invecchiamento e memoria

L’invecchiamento porta con sé importanti cambiamenti nelle funzioni cognitive e in particolare nella memoria. In un invecchiamento fisiologico, ossia privo di patologie neurologiche, è del tutto normale che si presentino tali cambiamenti.

Facciamo un esempio: 

“Maria ha 70 anni. Era una bibliotecaria e da qualche anno è in pensione. È sempre molto impegnata tra la casa e i nipotini. Ultimamente si lamenta spesso di dimenticare i nomi delle persone appena conosciute e di non essere più abile come una tempo a memorizzare la lista della spesa. Se ne stupisce perché, solo qualche anno fa, era in grado di ricordare a memoria la posizione esatta di tutti i libri in biblioteca. Un giorno, alle prese con cruciverba, ha dovuto chiedere aiuto a suo marito. Maria è preoccupata e viene in consultazione per domandare se c’è qualcosa in lei che non va”.

Maria non ha nulla di grave, presenta dei cambiamenti che fanno parte dell’invecchiamento fisiologico. 

Ecco a cosa sono dovuti spesso questi cambiamenti:

1. Non si può ricordare se non si presta attenzione

Occorre distinguere una dimenticanza da un mancato processo attentivo nei confronti di un’informazione. Se non prestate attenzione alle informazioni non sarete in grado di ricordarle. Per esempio, quando si incontra una persona nuova e non si presta attenzione al suo nome, non si può dire di averlo dimenticato! Non è mai stato memorizzato. 

2. La memoria rallenta 

Con il passare degli anni si verifica un rallentamento nella velocità con cui si elaborano le informazioni, per questo l’apprendimento di nuove informazioni può richiedere più tempo e sforzo. Essere più lenti vuol dire avere meno tempo a disposizione per memorizzare tutte le informazioni. Non stupitevi perciò se al supermercato non ricordate la lista della spesa se non vi siete concessi più tempo per memorizzarla.  

3. Ce l’ho sulla punta della lingua! 

Il fatto di far fatica a ricordare la parola da inserire nel cruciverba è quello che in psicologia viene chiamato “effetto sulla punta della lingua”. Si ha la percezione di possedere un’informazione e che sia proprio “sulla punta della lingua”. A volte si ricorda persino l’iniziale, ma il cervello non vuole saperne di richiamare il vocabolo giusto. Questa sensazione, sporadica, non si verifica solo in fase di invecchiamento, ma a tutte le età. 

4. Cattive strategie

A volte nel tempo è necessario cambiare strategie di memorizzazione. Quello che funziona a 20 anni può non funzionare più a 60. Per esempio, se per memorizzare un numero di telefono vi è sempre bastato ripeterlo qualche volta, con l’avanzare dell’età potreste avere la necessità di memorizzarlo seguendo una logica. 

Mettete alla prova la memoria

Provate con un semplice esercizio a valutare lo stato nella nostra memoria. 

In 5 minuti di tempo provate a memorizzare 10 coppie di parole. Una volta memorizzate, provate a scrivere accanto alla prima parola della coppia quella a cui era associata. 

VOLPEPALLA
CANEBUIO
QUADRO ORECCHIO
MOBILIANGOLO 
FRECCIA PORTA 
BRACCIO BAR
CESTABOTTIGLIA
GASTERRA
PELUCHEFOGLIO
MARITO BOTTE

Ora provate a scrivere accanto ad ogni parola quella a cui era associata. 

VOLPE
CANE
QUADRO 
MOBILI  
FRECCIA
BRACCIO 
CESTA
GAS
PELUCHE
MARITO 

Se avete ricordato meno di 5 coppie di parole potrebbe essere utile stimolare la memoria con piccoli esercizi quotidiani. 

Come allenare la memoria?

La memoria ha bisogno di essere costantemente tenuta allenata. 

Continuare l’attività lavorativa, svolgere attività di volontariato, coltivare degli interessi, sollecitare l’apprendimento di nuove informazioni o anche seguire dei corsi specifici per la memoria, rappresentano delle utili attività finalizzate a mantenersi attivi nel tempo. 

Ecco alcuni importanti ESERCIZI da svolgere nella quotidianità: 

  • Memoria di testi

Almeno una volta al giorno, quando leggete un articolo di giornale o guardate un programma televisivo, soffermatevi sulle informazioni importanti e sforzatevi di memorizzarle. Create poi delle occasioni di discussione con parenti e amici in cui rievocare le informazioni memorizzate.. 

  • Memoria di luoghi

Quando visitate un luogo o passeggiate per strada, osservate sempre bene gli ambienti che vi circondano e ponete attenzione ai particolari. Sforzatevi di ripercorrere mentalmente i luoghi che avete visto cercando di ricordare ogni singolo particolare. 

  • La lista della spesa

Quando dovete recarvi al supermercato, memorizzate la lista con gli acquisti che dovrete fare e verificate, prima di uscire da casa, di aver memorizzato tutto. Lo sforzo per memorizzare la lista dei prodotti, e il successivo ricordo, rappresenta un ottimo modo per stimolare la memoria.

  • Il parcheggio

Quando lasciate la vostra macchina o il vostro motorino in un parcheggio piuttosto affollato, osservate bene l’ambiente circostante. “Registrate” nella vostra mente dei punti di riferimento, come: uscite, muretti, numero del piano, cartelli, ecc. Quando ritornate a prendere la macchina, richiamate alla mente i punti di riferimento che avete memorizzato. 

  • Attività sociali e ricreative

Anche le attività ricreative, come ad esempio leggere, scrivere, giocare a scacchi o a dama o fare giochi di enigmistica, come sudoku, anagrammi, rebus o parole crociate, possono avere utili benefici sulla memoria. Tutte queste sono delle semplici occasioni della vita di tutti i giorni che vi aiutano a stimolare il cervello e la logica, con effetti positivi sulla vostra memoria.

Anche gli hobby possono aiutare a mantenere attiva la memoria, come il giardinaggio, il bricolage, ecc., oppure seguire dei corsi, come quelli proposti dalle Università della Terza Età.

Quando la perdita di memoria non segnala un invecchiamento fisiologico?

I cambiamenti che fanno parte del normale processo d’invecchiamento non incidono in modo significativo sulla vostra vita quotidiana.

Al contrario, dimenticanze quali la difficoltà a trovare la strada per tornare a casa dopo essere stati all’abituale supermercato, oppure la difficoltà a ricordare le regole del vostro gioco preferito o a gestire la pensione, o ancora il non ricordarsi di essere andati dal medico il giorno prima e ritornarci, sono campanelli di allarme di un invecchiamento non fisiologico. 

In questo caso sarebbe consigliabile rivolgersi al proprio medico di base per capire la causa del problema ed, eventualmente, sottoporsi ad alcuno test neuropsicologici per una diagnosi ed un piano di intervento più mirati.

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NEWS: SCREENING DSA

Da ottobre il Centro Polispecialistico Origame offre l’opportunità di effettuare uno screening di primo livello per evidenziare possibili fragilità o difficoltà nelle abilità scolastiche.

Questo servizio è rivolto ai bambini che frequentano la scuola primaria e ha un costo di 80€.

Per maggiori informazioni e per prenotare un appuntamento:

tel. 3383958123 oppure mail: [email protected] www.origamepsicologimilano.it

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SINDROME DA BURNOUT: QUANDO LAVORARE E’ MOLTO PIU’ CHE STANCANTE

La sindrome da Burnout, termine inglese con cui ci si riferisce all’esaurimento professionale (letteralmente“fuso”), è una condizione sempre più frequente legata ad un insuccesso nel processo di adattamento lavorativo. E’ un disturbo dilagante nel mondo occidentale, sempre più esigente a livello di prestazioni, tecnologizzato, iperveloce, iperattivo e iperconnesso.

Se a inizio 1900 il termine burnout compariva prevalentemente nel mondo dello sport, a partire dagli anni ’80 la psichiatra statunitense  Christina Maslach l’ha allargato alla sfera lavorativa  per evidenziare un disagio che colpisce le professioni in cui prevalgono le relazioni interpersonali e sono spesso legate all’aiuto del prossimo (medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi, poliziotti, vigili del fuoco, volontari…). Nel tempo, tra le categorie di lavoratori a rischio, sono state incluse anche quelle in cui si è spesso a contatto con il pubblico (centralinisti, , impiegati, segretari, insegnanti avvocati).

Sintomatologia e manifestazione

È una sindrome multifattoriale caratterizzata da un rapido decadimento delle risorse psicofisiche e da un peggioramento delle prestazioni professionali.

La sintomatologia è varia si presenta a livello fisico e psicologico.

Sintomi fisici:

•          Affaticamento

•          Disturbi gastrointestinali

•          Mal di testa

•          Respiro corto

•          Insonnia

•          Perdita di peso

•          Frequenti influenze

Sintomi psicologici:

•          Ansia

•          Ridotta efficacia professionale

•          Disinteresse per i rapporti interpersonali

•          Disistima

•          Rabbia

•          Sensazione di fallimento

•          Colpa

•          Stanchezza

•          Isolamento

•          Negativismo

Il burnout appare come l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che lavorano nel momento in cui le stesse non siano in grado di reagire e rispondere in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress a cui la mansione svolta espone.

Il processo che porta all’esaurimento sembra strutturarsi in tre fasi:

  1. Fase dello stress: si inizia ad avvertire un primo livello di stress lavorativo che mette in evidenza uno squilibrio tra le richieste provenienti dal contesto lavorativo e le risorse personali disponibili.
  2. Fase dell’esaurimento: di fronte allo stress l’organismo produce una risposta emotiva immediata e transitoria connotata da ansia, irritabilità, fatica e tensione costante.
  3. Fase di difesa: la tensione accumulata nel tempo aumenta e ci si difende con atteggiamenti e comportamenti caratterizzati da cinismo, rigidità e distacco emotivo.

Chi attraversa queste fasi che portano all’esaurimento sperimenta un graduale passaggio da una condizione di “entusiasmo realistico” in cui prevalgono idealismo ed elevate aspettative sul proprio ruolo nel contesto lavorativo, ad una condizione di “stagnazione e demotivazione” in cui prevale la percezione che il proprio investimento psicofisico non sia sufficiente a condurre ai risultati attesi, ad un’intollerabile sensazione di “frustrazione” che, infine, conduce ad una condizione di “apatia”, caratterizzata da un graduale disimpegno emozionale.

Cause

Cosa porta ad una simile condizione di esaurimento psicofisico?

Diverse sono le situazioni lavorative che innescano il processo tensivo che conduce alla sindrome di burnout:

  • Struttura organizzativa: distribuzione dei compiti e delle funzioni all’interno di un’organizzazione
  • Scarsa chiarezza nei ruoli: insufficienza di informazioni in relazione ad una determinata posizione
  • Conflitto di ruoli: esistenza di richieste che il lavoratore ritiene incompatibili con il proprio ruolo professionale
  • Sovraccarico: un eccessivo carico di lavoro o un’eccessiva responsabilità, che non permettono al lavoratore di portare avanti una buona prestazione lavorativa
  • Mancanza di stimolazione: monotonia della mansione assegnata

Fattori di rischio e fattori protettivi

Tra i fattori di rischio per lo sviluppo di sindrome da burnout si possono rintracciare fattori individuali, legati a caratteristiche personologiche, e fattori situazionali, legati a struttura e organizzazione del luogo di lavoro.

  • Fattori individuali:
  • ambizione
  • aggressività
  • iperattività
  • ostilità
  • motivazione
  • aspettative personali
  • Fattori situazionali:
  • mancanza di comunicazione
  • leadership inefficace
  • formazione inadeguata
  • sovraccarico lavorativo
  • imprevedibilità nei compiti
  • relazioni conflittuali tra colleghi
  • retribuzione inadeguata
  • mancanza di feedback positivo

I fattori protettivi, d’altro canto, seppur in presenza di un elevato numero di fattori di rischio, consentono al lavoratore di smorzare l’effetto negativo dei primi segnali di disagio, promuovendo una nuova visione della situazione e una ristrutturazione emotiva.

Fondamentali risultano:

  • Supporto sociale
  • Ascolto attivo
  • Comunicazione efficace
  • Formazione continua

Strategie

Lo stress cronico da lavoro difficilmente si risolve con una semplice pausa o con una vacanza, ma si può combattere prima di arrivare ad un punto di non ritorno. Essenziale è, in primis, riconoscere i segnali di uno stress eccessivo  che arreca insostenibili malesseri psicofisici. Spesso la prima e istintiva risposta messa in atto risulta assentarsi frequentemente dal lavoro o essere distratti e svogliati. Consapevoli che questo approccio difficilmente può portare ad un cambiamento della situazione stressogena, o della propria sensazione di disagio, occorre provare a muovere passi in altre direzioni:

  • porsi degli obiettivi realmente raggiungibili;
  • staccare la spina prendendo per sé tanti piccoli momenti di pausa, anche quando si è impegnati in compiti a cui non ci si può sottrarre;
  • fare una lista di piccole cose da fare, da spuntare man mano che si portano a termine nel corso della giornata;
  • non isolarsi;
  • considerare le altre persone come una risorsa: condividere loro le proprie emozioni è un modo per dare loro una forma e chiarirle anche a se stessi;
  • lavorare, quando è possibile, in modalità smartworking dà la possibilità di svolgere i propri compiti nello spazio in cui ci si sente più a proprio agio e di diminuire la frequenza di esposizione a fonti stressanti.
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I bambini e il Covid-19: linee guida per i genitori

Il 23 febbraio 2020 a Milano e in altre città il tempo si è fermato. Ci hanno chiesto, con provvedimenti via via più restrittivi, di rinunciare alle libertà di cui avevamo goduto dalla nascita e che avevamo sempre dato per scontate. Ad inizio marzo le limitazioni sono state estese a tutta Italia e abbiamo iniziato ad interrogarci sulla tenuta economica, sui risvolti sociali e psicologici, abbiamo cominciato ad indossare mascherine e guanti, a fare la fila per entrare in un supermercato e a chiederci quando e se riavremmo avuto indietro la nostra vita.

Con il passare dei giorni chi è anche genitore ha iniziato a guardare i propri figli e a chiedersi che cosa gli stesse passando per la testa, come comunicare con loro, come spiegargli che cosa stava succedendo.

Anche i bambini sono protagonisti di ciò che accade in questi giorni e non solo spettatori.

Anche i bambini si sono trovati da un momento all’altro rinchiusi in casa, con una programmazione della giornata completamente nuova e diversa da quella che avevano prima, con molto tempo da passare con i loro genitori e nessuno spazio di gioco con i loro amici, nessuna possibilità di incontro con i loro nonni, i loro zii, i loro cugini.

I genitori hanno iniziato a chiedersi e a chiederci: quali saranno le conseguenze sui miei figli? Che cosa posso fare per aiutarli in questo periodo? Che cosa succederà dopo?

Quali strumenti possono avere i genitori per essere loro in prima linea a gestire le emozioni dei loro figli?

Lo scenario attuale

Nessuno poteva ipotizzare ciò che stiamo vivendo. I bambini si sono ritrovati di fronte ad un isolamento forzato, con una richiesta di autonomia e responsabilità altissima rispetto a quella a cui erano preparati:  abbiamo chiesto loro di occuparsi della sopravvivenza. Gli abbiamo chiesto di proteggere l’umanità oltre che se stessi. Le informazioni a cui sono stati esposti sono molto allarmanti: all’improvviso sentono parlare mamma e papà di contagio, contaminazione, morte, malattia. E vedono i loro genitori, che sono gli unici modelli di rispecchiamento emotivo disponibili in questo periodo, spaventati, allarmati, disarmati.

I bimbi, per la loro struttura mentale, necessitano di rispecchiamento emotivo multiplo poiché riescono a leggersi meglio rispecchiandosi con gli altri e, all’improvviso, sono stati privati di relazioni che prima erano significative, amici, maestre, nonni. Nonni che magari sono anche venuti a mancare a causa del virus.

I bambini sono soggetti abitudinari, che attraverso la routine riescono a prevedere. I loro programmi si sono interrotti da un momento all’altro, hanno perso la routine. Le loro giornate, prima molto strutturate, ora sono lente, imprevedibili e i genitori, anche se ci sono, non sono sempre disponibili. Inoltre, i bambini non hanno una visione del tempo uguale all’adulto, per orientarsi hanno bisogno di riferimenti precisi: la fine della giornata, il weekend, le vacanze estive. Ora non hanno elementi che li aiutino a prevedere la fine, gliela stiamo promettendo ma è molto difficile per loro immaginarsela.

È chiaro che trovarsi a vivere uno scenario di questo tipo li faccia sentire totalmente persi.

Le emozioni in gioco

È innegabile che in questo periodo molti bambini stiano vivendo una situazione piacevole, perché si sono ritrovati a casa con i genitori e hanno messo da parte le sensazioni di disagio che erano causate dall’andare a scuola o dallo svolgimento di altre attività (un’attività sportiva poco gradita, il catechismo vissuto come un obbligo faticoso, la relazione burrascosa con il compagno di banco, la lezione di musica fatta controvoglia…). È altrettanto vero, purtroppo, che tanti bambini che trovavano nella scuola e nelle relazioni fuori casa un appiglio salvifico, si trovino ora a convivere con i propri carnefici, in situazioni di grande disagio e sofferenza.

Qualunque sia la condizione abitativa, il ventaglio di emozioni che si presenta nei nostri bambini è variegato, e nel corso delle settimane si è ulteriormente articolato. Nella prima fase può esserci stata gioia, entusiasmo (finalmente vacanza!), il non dover più andare a scuola, il non dover più separarsi dai genitori… pian piano si sono presentate, però, anche paura, angoscia, ansia, rabbia, delusione (mamma e papà devono lavorare), frustrazione, noia, inadeguatezza, incomprensione.

Ora stiamo entrando nella cosiddetta “fase 2” e possiamo aspettarci altrettante emozioni quando, ad un certo punto, la porta di casa si aprirà: potrebbe arrivare l’ansia da contaminazione, l’idea di non essere più protetti, il timore di ammalarsi, di far ammalare, l’ansia da separazione, un’elevata sensibilità al giudizio (devo riconfrontarmi con diversi altri soggetti, non più solo con mamma e papà), molta eccitazione, diffidenza, depressione, apatia, senso di vuoto, smarrimento.

I genitori ci raccontano di alti e bassi, parlano di regressioni. Ma davvero possiamo chiamare regressioni l’unico modo che i nostri figli hanno di esternare le proprie emozioni e per chiederci aiuto, farsi sentire, chiedere protezione e rassicurazione? Guardiamo ai nostri figli da un’altra prospettiva, agiamo resilienza! Cos’è la resilienza? È la capacità di essere flessibili al cambiamento, è ciò che ci permette di elaborare piani di azione efficaci. Il Covid-19 ci dà questa opportunità, un tempo per stare, un tempo di relazione con i nostri bambini che difficilmente riusciremo ad avere. Come possiamo agire resilienza in questo tempo? Attraverso un’educazione emotiva che diventerà una risorsa fondamentale per affrontare gli effetti che si verificheranno nei prossimi mesi.

I benefici di un’educazione emotiva

La capacità di emozionarci è innata ma la competenza emotiva va allenata, educata. Un bambino con una buona educazione emotiva saprà riconoscere i propri stati emotivi, non si sentirà inadeguato, riuscirà a conoscere e riconoscere le situazioni, quali sono le sue attivazioni corporee e saprà reagire in modo costruttivo alla situazione.

I benefici di una buona educazione emotiva sono indiscussi: consapevolezza di sé, autostima e fiducia in sé, empatia e abilità sociali.

Linee guida per i genitori

Ogni genitore è il miglior esperto del proprio bambino, perché è lui che lo conosce e in questo momento è la più grande risorsa in campo, poiché è l’unico modello emotivo in cui il bambino si può rispecchiare.

Che cosa può fare concretamente per sostenere i propri figli e allenarli a un’educazione emotiva?

  • Accogliere l’emozione, per entrare in sintonia empatica con i propri bambini: ciò che stai provando va bene, è normale. I bambini hanno il diritto di provare quello che stanno provando e solo con questo atteggiamento di accoglienza gli insegniamo a fare altrettanto.
  • Convalidare l’ emozione, per farli sentire il più possibile compresi. Attenzione, però: questo non significa essere permissivi, vanno accettate le emozioni, non i comportamenti negativi. Come convalidare l’emozione? Innanzitutto attraverso il rispecchiamento emotivo (sai, anche io mi sento triste quando…) e poi tramite un arricchimento del loro lessico emotivo di significato e di intensità (es. fastidio/rabbia/collera)
  • Contenere fisicamente, perché un bambino in preda a forti attivazioni fisiche è una bomba pronta ad esplodere e che dobbiamo contenere. Come? Innanzitutto diciamogli che lui non è sbagliato, è normale sentire quell’emozione ed è per quello che noi siamo li, per aiutarlo. Abbracciarlo finché il vortice emotivo non passa permette di contenere l’energia, il bambino si sente più rasserenato, (“non sono cosi cattivo se riesco a stare tra le braccia di mamma o papà”) e, inoltre,  quando abbracciamo il nostro bimbo per almeno 30 secondi attiviamo in lui gli ormoni del piacere che hanno  l’effetto di abbassare gli ormoni dello stress. Attenzione: il contenimento con l’abbraccio è da fare solo se riusciamo davvero ad essere più forti del bambino, che altrimenti percepirà che nemmeno il genitore è in grado di stare con lui quando si sente così.
  • Anticipare il rischio, perché se io conosco mio figlio so che cosa più facilmente lo porta alla crisi. La fame? Il sonno?
  • Allenare la neocorteccia, la parte del cervello preposta al ragionamento e al problem solving, nella quotidianità. Educare i bambini a fare cose da soli, come versarsi l’acqua nel bicchiere, risolvere delle cose senza anticiparli. Stimolarli all’immedesimazione attraverso i libri o le situazioni che capitano nella quotidianità (“E se tu fossi quella persona/personaggio come ti sentiresti? Che cosa faresti?”).
  • Riconoscere i propri limiti, perchè questo periodo mette tanto alla prova,  se un genitore va in crisi è importante che sappia fare un passo indietro:  allontanarsi fisicamente in un’altra stanza può essere una strategia. E se scappano reazioni verbali forti, quando ci si calma è importante chiedere scusa: dire ai bambini che non hanno sbagliato a tirare fuori quell’emozione, ma siamo stati noi a sbagliare  nel tirare fuori le nostre in quel modo.

Consigli per i genitori ai tempi del Covid-19

  • Non esporre i bambini a contatto diretto con le informazioni. I bambini non hanno strumenti per decodificarle, sono rivolte ad adulti, per cui non esporre alla fonte diretta. No ai numeri;
  • Usare un linguaggio semplice, comprensibile, accertarci che il bambino abbia capito che cosa sta succedendo e perché stiamo vivendo con queste limitazioni;
  • Non mostrarsi spaventati perché diventiamo automaticamente spaventanti. Questo non significa nascondere e reprimere le proprie emozioni, dobbiamo riuscire a condividere i nostri stati emotivi in maniera più strutturata e costruttiva (“Sai che anche io ho un po’ paura di questa situazione…”);
  • Mettere enfasi su ciò che di positivo c’è stato (“Però che bello poter stare insieme questo tempo…”);
  • Dare elementi su come poter gestire il dopo ;
  • Garantire gioco e libertà di espressione attraverso varie forme artistiche e la lettura di albi illustrati.
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