SINDROME DA BURNOUT: QUANDO LAVORARE E’ MOLTO PIU’ CHE STANCANTE

La sindrome da Burnout, termine inglese con cui ci si riferisce all’esaurimento professionale (letteralmente“fuso”), è una condizione sempre più frequente legata ad un insuccesso nel processo di adattamento lavorativo. E’ un disturbo dilagante nel mondo occidentale, sempre più esigente a livello di prestazioni, tecnologizzato, iperveloce, iperattivo e iperconnesso.

Se a inizio 1900 il termine burnout compariva prevalentemente nel mondo dello sport, a partire dagli anni ’80 la psichiatra statunitense  Christina Maslach l’ha allargato alla sfera lavorativa  per evidenziare un disagio che colpisce le professioni in cui prevalgono le relazioni interpersonali e sono spesso legate all’aiuto del prossimo (medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi, poliziotti, vigili del fuoco, volontari…). Nel tempo, tra le categorie di lavoratori a rischio, sono state incluse anche quelle in cui si è spesso a contatto con il pubblico (centralinisti, , impiegati, segretari, insegnanti avvocati).

Sintomatologia e manifestazione

È una sindrome multifattoriale caratterizzata da un rapido decadimento delle risorse psicofisiche e da un peggioramento delle prestazioni professionali.

La sintomatologia è varia si presenta a livello fisico e psicologico.

Sintomi fisici:

•          Affaticamento

•          Disturbi gastrointestinali

•          Mal di testa

•          Respiro corto

•          Insonnia

•          Perdita di peso

•          Frequenti influenze

Sintomi psicologici:

•          Ansia

•          Ridotta efficacia professionale

•          Disinteresse per i rapporti interpersonali

•          Disistima

•          Rabbia

•          Sensazione di fallimento

•          Colpa

•          Stanchezza

•          Isolamento

•          Negativismo

Il burnout appare come l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che lavorano nel momento in cui le stesse non siano in grado di reagire e rispondere in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress a cui la mansione svolta espone.

Il processo che porta all’esaurimento sembra strutturarsi in tre fasi:

  1. Fase dello stress: si inizia ad avvertire un primo livello di stress lavorativo che mette in evidenza uno squilibrio tra le richieste provenienti dal contesto lavorativo e le risorse personali disponibili.
  2. Fase dell’esaurimento: di fronte allo stress l’organismo produce una risposta emotiva immediata e transitoria connotata da ansia, irritabilità, fatica e tensione costante.
  3. Fase di difesa: la tensione accumulata nel tempo aumenta e ci si difende con atteggiamenti e comportamenti caratterizzati da cinismo, rigidità e distacco emotivo.

Chi attraversa queste fasi che portano all’esaurimento sperimenta un graduale passaggio da una condizione di “entusiasmo realistico” in cui prevalgono idealismo ed elevate aspettative sul proprio ruolo nel contesto lavorativo, ad una condizione di “stagnazione e demotivazione” in cui prevale la percezione che il proprio investimento psicofisico non sia sufficiente a condurre ai risultati attesi, ad un’intollerabile sensazione di “frustrazione” che, infine, conduce ad una condizione di “apatia”, caratterizzata da un graduale disimpegno emozionale.

Cause

Cosa porta ad una simile condizione di esaurimento psicofisico?

Diverse sono le situazioni lavorative che innescano il processo tensivo che conduce alla sindrome di burnout:

  • Struttura organizzativa: distribuzione dei compiti e delle funzioni all’interno di un’organizzazione
  • Scarsa chiarezza nei ruoli: insufficienza di informazioni in relazione ad una determinata posizione
  • Conflitto di ruoli: esistenza di richieste che il lavoratore ritiene incompatibili con il proprio ruolo professionale
  • Sovraccarico: un eccessivo carico di lavoro o un’eccessiva responsabilità, che non permettono al lavoratore di portare avanti una buona prestazione lavorativa
  • Mancanza di stimolazione: monotonia della mansione assegnata

Fattori di rischio e fattori protettivi

Tra i fattori di rischio per lo sviluppo di sindrome da burnout si possono rintracciare fattori individuali, legati a caratteristiche personologiche, e fattori situazionali, legati a struttura e organizzazione del luogo di lavoro.

  • Fattori individuali:
  • ambizione
  • aggressività
  • iperattività
  • ostilità
  • motivazione
  • aspettative personali
  • Fattori situazionali:
  • mancanza di comunicazione
  • leadership inefficace
  • formazione inadeguata
  • sovraccarico lavorativo
  • imprevedibilità nei compiti
  • relazioni conflittuali tra colleghi
  • retribuzione inadeguata
  • mancanza di feedback positivo

I fattori protettivi, d’altro canto, seppur in presenza di un elevato numero di fattori di rischio, consentono al lavoratore di smorzare l’effetto negativo dei primi segnali di disagio, promuovendo una nuova visione della situazione e una ristrutturazione emotiva.

Fondamentali risultano:

  • Supporto sociale
  • Ascolto attivo
  • Comunicazione efficace
  • Formazione continua

Strategie

Lo stress cronico da lavoro difficilmente si risolve con una semplice pausa o con una vacanza, ma si può combattere prima di arrivare ad un punto di non ritorno. Essenziale è, in primis, riconoscere i segnali di uno stress eccessivo  che arreca insostenibili malesseri psicofisici. Spesso la prima e istintiva risposta messa in atto risulta assentarsi frequentemente dal lavoro o essere distratti e svogliati. Consapevoli che questo approccio difficilmente può portare ad un cambiamento della situazione stressogena, o della propria sensazione di disagio, occorre provare a muovere passi in altre direzioni:

  • porsi degli obiettivi realmente raggiungibili;
  • staccare la spina prendendo per sé tanti piccoli momenti di pausa, anche quando si è impegnati in compiti a cui non ci si può sottrarre;
  • fare una lista di piccole cose da fare, da spuntare man mano che si portano a termine nel corso della giornata;
  • non isolarsi;
  • considerare le altre persone come una risorsa: condividere loro le proprie emozioni è un modo per dare loro una forma e chiarirle anche a se stessi;
  • lavorare, quando è possibile, in modalità smartworking dà la possibilità di svolgere i propri compiti nello spazio in cui ci si sente più a proprio agio e di diminuire la frequenza di esposizione a fonti stressanti.
Read More

#IORESTOACASA

SUGGERIMENTI PER GESTIRE LO STRESS LEGATO ALL’ISOLAMENTO E SALVAGUARDARE IL BENESSERE DURANTE L’EMERGENZA SANITARIA COVID-19

Ecco alcuni consigli per gestire i pensieri e le emozioni legate all’isolamento (tratto dal documento del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi).

Gestire lo stress e sviluppare resilienza: per sviluppare resilienza occorre assumere un atteggiamento costruttivo, imparare ad organizzarsi restando sensibili ed aperti alle opportunità. Un atteggiamento resiliente permette di gestire meglio lo stress.

Riscoprire le proprie risorse: impariamo a rilassarci, ad annoiarci e soprattutto a riorganizzare il nostro quotidiano.

Ridare dignità ad ogni aspetto della giornata: stiamo fronteggiando una routine giornaliera completamente diversa e rallentata rispetto a quella solita; diamo ad ogni attività il giusto tempo e dignitià!

Gestire le emozioni negative: riconosciamo i vissuti emotivi per quello che sono, dando loro un nome. Applichiamo poi delle semplici tecniche di rilassamento (es. concentriamoci per 5-10 minuti su un respiro lento e regolare).

Aprire la mente all’altro…vicino: condividere le emozioni negative, amplificate in questo momento dalle limitazioni della libertà personale, ci permette di diventare maggiormente consapevoli e di prendere la giusta distanza.

Applicare il minimalismo digitale: i continui bombardamenti di informazioni dei social possono aiutarci a riflettere sul senso e sul valore che attribuiamo al mondo digitale. Qual è il migliore uso che possiamo farne per arricchire la nostra vita?

Lavorare da casa, come riorganizzare le proprie abitudini quotidiane: è importante per chi lavora attraverso smart working riorganizzare la propria giornata con limiti di tempo lavorativo e routine.

Non dimenticare l’attività fisica: l’attivazione fisica comporta benefici anche a livello psicologico. Anche in questa situazione cerchiamo di dedicare mezz’ora ogni giorno a qualche esercizio di stretching e corpo libero.

Socializza, adesso hai tempo per farlo: i social ci permettono di dedicare tempo alle amicizie e alle relazioni. L’aggregazione permette di distrarci allontanandoci dalla routine quotidiana e da qualche pensiero negativo!

Ascoltare i bambini…: spieghiamo ai bambini, in modo chiaro e sincero, ciò che sta accadendo per aiutarli a dare un senso a questa nuova realtà. Possiamo anche aiutarli ascoltandoli, stimolandoli ad accedere a fonti d’informazione ufficiali, ad utilizzare questo tempo per continuare i loro studi, anche se online, e approfittarne per lasciare libera la creatività.

…gli adolescenti…: puntiamo sulla responsabilità degli adolescenti! Diamo loro dei compiti in casa adatti alle loro capacità e ai loro talenti all’interno di un programma familiare condiviso, ricordandoci di lasciare anche degli spazi virtuali privati per la loro intimità. Parliamo e condividiamo le fatiche e i dolori, ascoltiamoli di più!

…e gli anziani: sono probabilmente la categoria più a rischio perché molti di loro si trovano ancor più soli e isolati di quanto avviene normalmente. È importante contrastare l’isolamento contattandoli per rallegrare il loro umore, aiutarli a trascorrere le giornate e a non “lasciarsi andare”. Sapere che le persone care non li hanno dimenticati aiuta a non perdere la speranza e la positività.

Un occhio di riguardo alla coppia: prendiamoci i nostri spazi e, allo stesso tempo, rispettiamo gli spazi dell’altro. La convivenza forzata può creare disagi, incomprensioni, discussioni; risolvere subito il problema è la giusta direzione per mantenere un clima sereno
in casa. Inoltre, avere un obiettivo condiviso può aiutare a sopportarsi e supportarsi di più.

Non dimenticare il tempo per il riposo: oltre all’attività fisica e a una corretta alimentazione, un fattore importante per il nostro benessere è il riposo. Concediamoci almeno un’ora per staccare e decomprimere a fine giornata in preparazione ad un sonno ristoratore.

Provare ad imparare nuove abitudini: è il momento di fare cose nuove e dedicarci a piccole attività che abbiamo dimenticato o procrastinato, ad esempio trascrivere i sogni appena
svegli!

Non vivere solo di coronavirus!: nonostante la realtà intorno a noi ce lo ricordi sempre, cerchiamo di spostare l’attenzione anche su altro per combattere il rimuginio.

Riflettere sulla gestione della paura…: la paura è un’emozione naturale che evolutivamente ci ha consentito di sopravvivere. Tuttavia in questi giorni, la paura spesso si trasforma in ansia, una spiacevole sensazione che anticipa e amplifica le conseguenze di alcuni pericoli che a mente lucida giudicheremmo innocui. Avere la “giusta” paura non solo è normale, ma ci protegge dal pericolo di essere contagiati e contagiare, spingendoci ad attuare tutte le misure preventive richieste dal Governo.

…ma anche smettere di pensare ad essa: è cruciale ritagliarsi momenti durante i quali non pensare all’emergenza, parlare e fare altro. Questo consente di mantenerci il più vicino possibile alla quotidianità e, soprattutto, di rivivere emozioni positive che permettono di contrastare gli effetti negativi dell’ansia e promuovere un approccio più proattivo e intraprendente.

Sforzarsi di ritrovare qualche aspetto positivo: sfruttiamo il tempo a disposizione per fare tutto ciò che abbiamo sempre rimandato! Re-impariamo ad organizzare la nostra giornata, dandole comunque un significato e uno scopo, trasformandola nell’occasione per scoprire
ciò a cui teniamo di più.

Dove posso trovare supporto psicologico?: tante sono le iniziative nate per sostenere la popolazione attraverso i supporti online. Anche noi dello Studio di Psicologia Origame ci siamo per fissare un colloquio e sostenere tutti in questo momento di grande angoscia, confusione e smarrimento. Inoltre, abbiamo deciso di aderire all’iniziativa #facciolamiaparte, mettendo a disposizione videoconsulti gratuiti per i medici e per tutti coloro che operano nel settore sanitario, .

Scrivici via mail all’indirizzo [email protected] oppure via whatsapp al numero 3383958123.

Infine, ricordiamoci di ringraziare chi, in questo momento, non ha la fortuna di poter stare a casa perché malato, perché impegnato a salvare vite o dedito a coltivare, produrre e vendere alimenti e beni di prima necessità per tutti noi!

Read More

I terrori notturni

“Mio figlio spesso urla nel sonno e non so che cosa fare”, “Stanotte sono stata svegliata dalle urla terrorizzate di mia figlia e mi sono molto spaventata”…tanti genitori hanno provato questa esperienza e si sono chiesti quale fosse la ragione e se fosse il caso di intervenire e in quale modo.

Vediamo di seguito di che cosa si tratta, quali possono essere le cause e che cosa fare quando capita.

Il pavor nocturnus

Il pavor nocturnus, comunemente chiamato “terrore notturno” o “terrore del sonno”, è una perturbazione del sonno non patologica che rientra nella categoria delle parasonnie. Si manifesta nei bambini a partire dai 18 mesi di vita e raggiunge il picco massimo tra i 2 e 4 anni. Solitamente scompare con l’ingresso alla scuola primaria ma in rari casi può perdurare anche fino alla tarda adolescenza.

I terrori notturni si verificano poche ore dopo l’addormentamento. Il bambino all’improvviso inizia a gridare, dire frasi senza senso, piangere e può mettersi bruscamente a sedere oppure scendere dal letto. I muscoli sono tesi, le pupille dilatate, la sudorazione intensa e il respiro corto. Per coloro che assistono a queste “crisi” è davvero impressionante perché il bambino con lo sguardo perso nel vuoto, non risulta raggiungibile né con le parole né con gesti di affetto: il piccolo non riconosce i genitori e non risponde ai loro tentativi di consolazione. La “crisi” solitamente dura pochi minuti e una volta finita, il bambino torna a dormire d’un sonno profondo che, diversamente da quanto può sembrare, non si è mai interrotto. Recenti studi hanno, infatti, dimostrato che durante i terrori notturni le aree cerebrali legate al controllo del movimento si attivano, mentre quelle coinvolte nei processi di memoria o di coscienza rimangono inattive.

Pavor nocturnus vs incubo

Vi sono due differenze strettamente collegate tra loro tra i terrori notturni e gli incubi. Nel primo caso poiché la crisi si presenta nella prima parte del sonno, durante il sonno profondo (fasi 3 e 4 non-ReM), il soggetto non è cosciente e consapevole di ciò che sta vivendo. Per tale motivo il bambino al suo risveglio non ha alcun ricordo di quanto accaduto e presenta uno stato d’animo opposto a quello espresso durante la “crisi”.

Al contrario, gli incubi si verificano durante le ultime ore del sonno (fase REM) quando il soggetto è più vicino alla veglia. I brutti sogni di frequente causano risvegli che interferiscono con la qualità del sonno e del riposo. Spesso, inoltre, condizionano anche l’umore della giornata.

Le cause

Alla base del pavor nocturnus vi è la predisposizione genetica: è stato riscontrato che la possibilità di presentare i terrori notturni è dieci volte maggiore nei bambini i cui genitori hanno sperimentato nella propria vita queste o altre parasonnie (sonnambulismo, risvegli confusionali) rispetto a chi non ha familiarità.

Oltre alla predisposizione genetica, vi sono alcuni fattori precipitanti che facilitano la loro manifestazione:

  • apnee notturne
  • asma notturna
  • ipertrofia tonsillare o adenoidea
  • reflusso gastroesofageo
  • febbre
  • deprivazione da sonno
  • ritmo sonno-veglia irregolare
  • alti livelli di attivazione causati da stress, agitazione e dall’assunzione di cibi e bevande ricchi di caffeina (es. the, bibite).

Chi soffre di pavor nocturnus ha un sonno particolarmente profondo e non riuscendo a svegliarsi di fronte a queste condizioni particolari ha un risveglio parziale e inconsapevole (microrisveglio dalla fase non-ReM).

Pertanto i soggetti che vivono una o più di queste condizioni e hanno familiarità con le parasonnie manifesteranno con maggiore frequenza terrori notturni durante il sonno.

Nonostante lo spavento e il senso d’impotenza provato di fronte a queste crisi, è importante sottolineare che il pavor nocturnus non ha alcun significato patologico (neurologico, psicologico, relazionale) e non porta ad alcune conseguenze patologiche. Il pavor nocturnus non deve essere considerato preludio di altre malattie.

Che cosa fare

Il pavor nocturnus è un fenomeno innocuo che lascia amnesia al risveglio. Al contrario, se il bambino viene svegliato può presentare alcuni ricordi strettamente legati alla fase del risveglio e non all’esperienza della “crisi”. Pertanto proprio come con i sonnambuli, appare più opportuno non intervenire con l’intento di svegliare il bambino durante un terrore notturno. Un risveglio improvviso e forzato con i genitori che lo circondano spaventati chiedendogli cosa è successo e come sta, potrebbe infatti essere un’esperienza traumatica. Può, invece, essere utile parlargli con toni bassi e una voce rassicurante e prevenire l’eventualità che possa farsi male scendendo da letto creando uno spazio sicuro e protetto.

Genitori, nonni e educatori dovrebbero ricordare che

per quanto la crisi di pavor nocturnus possa essere

spaventosa, è un fenomeno innocuo per il bambino.

Read More

Pensieri e comportamenti incontrollabili: il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) si caratterizza per la presenza cronica e diffusa di ossessioni e compulsioni che interferiscono significativamente con il funzionamento psicosociale della persona affetta. Le ossessioni sono definite dal DSM-5 “idee, pensieri, impulsi o immagini persistenti che vengono esperiti, almeno inizialmente, come intrusivi e inappropriati e causano ansia o disagio marcati” (avrò chiuso il gas?; avrò ucciso qualcuno in macchina?; sarò stato contagiato dai batteri altrui?). La persona cerca di ignorare, sopprimere o neutralizzare tali pensieri con altri pensieri o azioni che lo stesso manuale diagnostico definisce compulsioni: “comportamenti finalizzati e intenzionali eseguiti in risposta ad un’ossessione, secondo certe regole e in modo stereotipato” (lavarsi le mani, controllare, riordinare, pregare, contare…). Proprio per tali caratteristiche le compulsioni sono spesso chiamate “rituali” e non sono connesse in modo realistico con attività che potrebbero prevenire o neutralizzare il pensiero ossessivo. Mettere in atto i rituali risulta spesso faticoso e occupa molto tempo, ma al tempo stesso la persona non riesce a sottrarsi a questo meccanismo con l’idea che “se non metto in atto il rituale allora il pensiero o l’immagine ossessiva si realizzeranno”.

Alcuni studi dimostrano una maggior prevalenza del disturbo nel sesso maschile, con insorgenza in età puberale o comunque entro i 30 anni.

Spesso risulta difficile  risalire ad una causa scatenante il disturbo, più di frequente si rintracciano nella storia della persona eventi traumatici, familiarità per DOC, ansia o depressione.

 

TIPOLOGIE

Il disturbo ossessivo compulsivo assume diverse forme in base alla tipologia di ossessione-rituale:

  1. Disturbo ossessivo compulsivo da contaminazione o lavaggio

Le ossessioni di contaminazione sono associate a rituali di pulizia e di evitamento che neutralizzano la paura di un contagio con germi portatori di malattie, la contaminazione con escrementi umani o sostanze dannose.

  1. Disturbo ossessivo compulsivo da ipercontrollo

Le ossessioni riguardano il dubbio di aver fatto o non fatto qualcosa che causi un grave danno alla propria reputazione. I rituali connessi si concretizzano attraverso il controllo di tutto ciò che si pensa potrebbe arrecare problemi a sé o agli altri (controllo del gas, del ferro da stiro, di non aver investito qualcuno in auto..).

  1. Disturbo ossessivo compulsivo da conteggio e ripetizione

La persona si sente costretta a ripetere delle azioni precise, allo scopo di evitare che un pensiero ossessivo spaventevole, detto “ pensiero magico”, si avveri. Può per esempio innescarsi il pensiero magico per cui se non si toccano tutte le mattonelle o non si contano tutti i semafori, una persona cara può andare incontro ad una disgrazia.

  1. Disturbo ossessivo compulsivo da ordine e simmetria

Le ossessioni sono associate al timore che se ogni oggetto non è perfettamente ordinato e simmetrico potrebbe accadere qualcosa di grave a sé e agli altri. Questa credenza procura una sgradevole sensazione di mancanza di armonia e di logicità e l’irrefrenabile impulso a organizzare oggetti, arredamento, vestiti secondo rigidi criteri.

 

DIAGNOSI

Spesso è proprio la persona che esperisce ossessioni e compulsioni a rivolgersi ad un professionista. Le ossessioni causano notevole sofferenza e l’attuazione inevitabile dei rituali provoca un’enorme perdita di tempo interferendo spesso con la vita sociale e lavorativa.

La diagnosi viene eseguita escludendo la presenza di altri disturbi quali schizofrenia, depressione, ipocondria o fobie. Sebbene la presentazione clinica offerta dalla persona sia spesso chiara per una formulazione della diagnosi, non è semplice per il paziente raccontare  al terapeuta alcuni aspetti personali rilevanti del disturbo poiché la stranezza delle ossessioni e dei rituali l’ha spesso portata a sentirsi vittima di incomprensione o di ridicolo. Fondamentale diventa perciò l’atteggiamento comprensivo e non giudicante del terapeuta che indagherà pensieri, immagini, impulsi, comportamenti compulsivi con relativa frequenza, durata, resistenza e tentativi di neutralizzazione, problemi sociali, lavorativi e familiari collegati al disturbo. Raggiunta una diagnosi generale è importante acquisire informazioni su ogni specifico aspetto del disturbo chiedendo alla persona una minuziosa descrizione delle situazioni che possono innescare il meccanismo ossessione-rituale.

 

TRATTAMENTO

Il trattamento d’elezione del DOC è ormai notoriamente la terapia cognitivo-comportamentale associata o meno, a seconda della pervasività del disturbo, ad un intervento farmacologico.

La terapia mira ad insegnare ai pazienti a modificare i propri pensieri e sentimenti a partire dal cambiamento dei propri comportamenti. In particolare, lavora sul disturbo attraverso un meccanismo di esposizione e prevenzione della risposta. Al paziente viene cioè chiesto di esporsi ripetutamente alla fonte dell’ossessione (per esempio gli viene chiesto di frequentare luoghi pubblici che scatenano l’ossessione da contaminazione) e di resistere all’attuazione del comportamento compulsivo che è solito emettere per abbassare l’ansia e neutralizzare la potenza dell’ossessione (per esempio lavarsi le mani immediatamente dopo il contatto con una possibile fonte di contagio). La costanza dell’intervento, insieme ad un efficace automonitoraggio dei sintomi/comportamenti del paziente e all’attuazione di efficaci tecniche di gestione dell’ansia si dimostrano in grado di modificare alcuni meccanismi cerebrali riducendo a lungo termine la comparsa dei sintomi ossessivo compulsivi. Nel processo di graduale remissione dei sintomi terapeuta e paziente giocano un ruolo attivo. Il terapeuta cerca di guidare il paziente alla ricerca della strategia migliore da attuare, il paziente, invece, lavora al di fuori della seduta terapeutica per mettere in pratica quanto appreso e riportare al terapeuta i vissuti emotivi esperiti in fase di sperimentazione.

 

BIBLIOGRAFIA

 

  • American Psychiatric Association (APA) (2013), DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 2014.
  • Dettore D., (2003), Il Disturbo ossessivo-compulsivo. Caratteristiche cliniche e tecniche di intervento. Seconda ed. McGraw-Hill Editore.
  • Mancini F., (2016), La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. Raffaello Cortina Editore.

 

 

 

 

 

 

 

 

Read More

Il mutismo selettivo: parole intrappolate in gola

Il mutismo selettivo è un disturbo d’ansia che blocca l’uso della parola nonostante la produzione e la comprensione verbale siano nella norma. Si può manifestare a partire dai 3 anni di età, periodo in cui i bambini iniziano a frequentare nuovi contesti, come la scuola materna, e nuove persone. È caratterizzato da una forte inibizione verbale in alcuni specifici contesti vissuti dal bambino come particolarmente minacciosi o con determinate persone, adulti o pari.

 

Come si comporta il bambino muto selettivo?
Spesso il bambino muto selettivo viene etichettato come un bambino timido, ma non si tratta di timidezza. Il bambino solitamente è estremamente spaventato di fronte a situazioni nuove o a persone che non ha mai incontrato. Prova così tanta paura che, sebbene abbia desiderio di parlare, le paroline non gli escono dalla bocca e manifesta una forte rigidità motoria accompagnata da inespressività del volto. Alcune volte il blocco della parola non gli consente di usare forme di comunicazione alternative, altre volte il bambino riesce comunque ad avere buone interazioni “mute”. Si tratta di un bambino molto sensibile che, per quanto sembri assente, è in grado di cogliere ogni dettaglio di ciò che accade intorno a sé. È un bambino preoccupato del giudizio degli altri che a volte si fa carico di colpe che non lo riguardano (“la maestra ha alzato la voce perché era arrabbiata con me”).

 
Come riconoscerlo?
Per i genitori è molto difficile accorgersi del disturbo perché in casa, o in ambienti percepiti come rassicuranti e familiari, il bambino è spesso un “chiacchierone”. Sono gli insegnanti della scuola materna ad avere il ruolo fondamentale di segnalatori della difficoltà del bambino alla famiglia. Sebbene i genitori spesso siano increduli di fronte ad un’immagine del proprio bambino così distante dalla loro, è importante da parte della scuola accompagnarli verso un percorso di diagnosi e trattamento del disturbo.
IL DSM- 5 fornisce i seguenti criteri diagnostici per individuare un bambino con mutismo sele1. Il bambino non parla in determinati luoghi, come la scuola o altre situazioni sociali.
2. Il bambino parla normalmente nelle situazioni in cui si trova a proprio agio come a casa,
sebbene alcuni bambini possano essere muti anche tra le mura domestiche.
3. L’incapacità del bambino di parlare interferisce con la sua capacità di “funzionare” nel
contesto scolastico e/o nelle situazioni sociali.
4. Il mutismo dura da almeno un mese.
5. Non sono presenti disturbi della comunicazione (come la balbuzie) o disturbi mentali
(come autismo, schizofrenia, ritardo mentale).

 
Cosa devono fare i genitori?
La diagnosi precoce è lo strumento più efficace per una rapida risoluzione del problema.
I genitori, non appena ricevono una segnalazione di forte chiusura del proprio bambino da parte della scuola materna, o non appena notano una discrepanza tra il suo comportamento verbale in casa e fuori casa, devono recarsi da uno specialista che si occupa di mutismo selettivo. Il compito dello specialista sarà quello di attivare una buona collaborazione con la famiglia e con il sistema scolastico così da lavorare in rete per una veloce risoluzione del problema. Ciascun attore implicato nel processo di cura del disturbo d’ansia sarà coinvolto a 360° e, soprattutto i genitori, saranno chiamati a mettersi in gioco anche attraverso un lavoro su di sé come singoli e come coppia genitoriale.

Una volta confermata la diagnosi di mutismo selettivo è importante che i genitori adottino un atteggiamento comprensivo e accogliente nei confronti del bambino che non RIESCE (ma vorrebbe) a parlare ed è paralizzato dall’ansia:
non forzare MAI il bambino a parlare
non ricattarlo con premi particolarmente desiderati (“se parli ti compro quel gioco…”; “se
dici ciao alla nonna domani puoi non andare a scuola”)
non punirlo di fronte al suo silenzio
non eccedere con le manifestazioni di gioia di fronte a nuove interazioni verbali
non farlo sentire in colpa (“se continui a non parlare la mamma non sa più come fare..”)
spiegare, con parole commisurate all’età, che cos’è il mutismo selettivo
– far sentire comprensione e fiducia nelle capacità del bambino
– creare il più possibile un clima rassicurante dove siano presenti un numero gestibile di
stimoli ansiogeni
condividere con il bambino nuove sfide e obiettivi considerando i suoi tempi e le sue paure
favorire l’autonomia attraverso piccoli compiti che siano in grado di farlo sentire sicuro e
capace
favorire la socializzazione invitando a casa (ambiente sicuro e familiare) i bambini con cui
interagisce a livello non verbale più spesso.

 

Cosa deve fare la scuola?
Trascorso il primo mese di scuola, dell’infanzia o primaria, e riscontrata una prevalente chiusura verbale del bambino, gli insegnanti devono segnalare la difficoltà ai genitori.
Come comportarsi in classe:
creare il più possibile un clima disteso in cui il bambino non si senta sotto pressione o
forzato a parlare
permettere al bambino di utilizzare forme di comunicazione alternative (alzare la mano,
scrivere su un foglio..)
– non creare situazioni in cui tutti i bambini devono obbligatoriamente parlare ma lasciare
loro libera la scelta di intervenire
non fare domande dirette al bambino
non trattare il bambino come se fosse invisibile o assente, ma coinvolgerlo sempre anche con
piccoli compiti quotidiani
– in caso di interrogazioni orali accontentarsi di registrazioni vocali prodotte a casa

 

Per tutte le persone che ruotano intorno ad un bambino muto selettivo è fondamentale avere
pazienza e fiducia. Il processo di risoluzione è spesso lento e graduale perché rispetta i tempi
del bambino. Aspettare e sperare che “tutto ad un tratto” il bambino parlerà non è la soluzione.

Read More