Pensieri e comportamenti incontrollabili: il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) si caratterizza per la presenza cronica e diffusa di ossessioni e compulsioni che interferiscono significativamente con il funzionamento psicosociale della persona affetta. Le ossessioni sono definite dal DSM-5 “idee, pensieri, impulsi o immagini persistenti che vengono esperiti, almeno inizialmente, come intrusivi e inappropriati e causano ansia o disagio marcati” (avrò chiuso il gas?; avrò ucciso qualcuno in macchina?; sarò stato contagiato dai batteri altrui?). La persona cerca di ignorare, sopprimere o neutralizzare tali pensieri con altri pensieri o azioni che lo stesso manuale diagnostico definisce compulsioni: “comportamenti finalizzati e intenzionali eseguiti in risposta ad un’ossessione, secondo certe regole e in modo stereotipato” (lavarsi le mani, controllare, riordinare, pregare, contare…). Proprio per tali caratteristiche le compulsioni sono spesso chiamate “rituali” e non sono connesse in modo realistico con attività che potrebbero prevenire o neutralizzare il pensiero ossessivo. Mettere in atto i rituali risulta spesso faticoso e occupa molto tempo, ma al tempo stesso la persona non riesce a sottrarsi a questo meccanismo con l’idea che “se non metto in atto il rituale allora il pensiero o l’immagine ossessiva si realizzeranno”.

Alcuni studi dimostrano una maggior prevalenza del disturbo nel sesso maschile, con insorgenza in età puberale o comunque entro i 30 anni.

Spesso risulta difficile  risalire ad una causa scatenante il disturbo, più di frequente si rintracciano nella storia della persona eventi traumatici, familiarità per DOC, ansia o depressione.

 

TIPOLOGIE

Il disturbo ossessivo compulsivo assume diverse forme in base alla tipologia di ossessione-rituale:

  1. Disturbo ossessivo compulsivo da contaminazione o lavaggio

Le ossessioni di contaminazione sono associate a rituali di pulizia e di evitamento che neutralizzano la paura di un contagio con germi portatori di malattie, la contaminazione con escrementi umani o sostanze dannose.

  1. Disturbo ossessivo compulsivo da ipercontrollo

Le ossessioni riguardano il dubbio di aver fatto o non fatto qualcosa che causi un grave danno alla propria reputazione. I rituali connessi si concretizzano attraverso il controllo di tutto ciò che si pensa potrebbe arrecare problemi a sé o agli altri (controllo del gas, del ferro da stiro, di non aver investito qualcuno in auto..).

  1. Disturbo ossessivo compulsivo da conteggio e ripetizione

La persona si sente costretta a ripetere delle azioni precise, allo scopo di evitare che un pensiero ossessivo spaventevole, detto “ pensiero magico”, si avveri. Può per esempio innescarsi il pensiero magico per cui se non si toccano tutte le mattonelle o non si contano tutti i semafori, una persona cara può andare incontro ad una disgrazia.

  1. Disturbo ossessivo compulsivo da ordine e simmetria

Le ossessioni sono associate al timore che se ogni oggetto non è perfettamente ordinato e simmetrico potrebbe accadere qualcosa di grave a sé e agli altri. Questa credenza procura una sgradevole sensazione di mancanza di armonia e di logicità e l’irrefrenabile impulso a organizzare oggetti, arredamento, vestiti secondo rigidi criteri.

 

DIAGNOSI

Spesso è proprio la persona che esperisce ossessioni e compulsioni a rivolgersi ad un professionista. Le ossessioni causano notevole sofferenza e l’attuazione inevitabile dei rituali provoca un’enorme perdita di tempo interferendo spesso con la vita sociale e lavorativa.

La diagnosi viene eseguita escludendo la presenza di altri disturbi quali schizofrenia, depressione, ipocondria o fobie. Sebbene la presentazione clinica offerta dalla persona sia spesso chiara per una formulazione della diagnosi, non è semplice per il paziente raccontare  al terapeuta alcuni aspetti personali rilevanti del disturbo poiché la stranezza delle ossessioni e dei rituali l’ha spesso portata a sentirsi vittima di incomprensione o di ridicolo. Fondamentale diventa perciò l’atteggiamento comprensivo e non giudicante del terapeuta che indagherà pensieri, immagini, impulsi, comportamenti compulsivi con relativa frequenza, durata, resistenza e tentativi di neutralizzazione, problemi sociali, lavorativi e familiari collegati al disturbo. Raggiunta una diagnosi generale è importante acquisire informazioni su ogni specifico aspetto del disturbo chiedendo alla persona una minuziosa descrizione delle situazioni che possono innescare il meccanismo ossessione-rituale.

 

TRATTAMENTO

Il trattamento d’elezione del DOC è ormai notoriamente la terapia cognitivo-comportamentale associata o meno, a seconda della pervasività del disturbo, ad un intervento farmacologico.

La terapia mira ad insegnare ai pazienti a modificare i propri pensieri e sentimenti a partire dal cambiamento dei propri comportamenti. In particolare, lavora sul disturbo attraverso un meccanismo di esposizione e prevenzione della risposta. Al paziente viene cioè chiesto di esporsi ripetutamente alla fonte dell’ossessione (per esempio gli viene chiesto di frequentare luoghi pubblici che scatenano l’ossessione da contaminazione) e di resistere all’attuazione del comportamento compulsivo che è solito emettere per abbassare l’ansia e neutralizzare la potenza dell’ossessione (per esempio lavarsi le mani immediatamente dopo il contatto con una possibile fonte di contagio). La costanza dell’intervento, insieme ad un efficace automonitoraggio dei sintomi/comportamenti del paziente e all’attuazione di efficaci tecniche di gestione dell’ansia si dimostrano in grado di modificare alcuni meccanismi cerebrali riducendo a lungo termine la comparsa dei sintomi ossessivo compulsivi. Nel processo di graduale remissione dei sintomi terapeuta e paziente giocano un ruolo attivo. Il terapeuta cerca di guidare il paziente alla ricerca della strategia migliore da attuare, il paziente, invece, lavora al di fuori della seduta terapeutica per mettere in pratica quanto appreso e riportare al terapeuta i vissuti emotivi esperiti in fase di sperimentazione.

 

BIBLIOGRAFIA

 

  • American Psychiatric Association (APA) (2013), DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 2014.
  • Dettore D., (2003), Il Disturbo ossessivo-compulsivo. Caratteristiche cliniche e tecniche di intervento. Seconda ed. McGraw-Hill Editore.
  • Mancini F., (2016), La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. Raffaello Cortina Editore.

 

 

 

 

 

 

 

 

Read More

Il mutismo selettivo: parole intrappolate in gola

Il mutismo selettivo è un disturbo d’ansia che blocca l’uso della parola nonostante la produzione e la comprensione verbale siano nella norma. Si può manifestare a partire dai 3 anni di età, periodo in cui i bambini iniziano a frequentare nuovi contesti, come la scuola materna, e nuove persone. È caratterizzato da una forte inibizione verbale in alcuni specifici contesti vissuti dal bambino come particolarmente minacciosi o con determinate persone, adulti o pari.

 

Come si comporta il bambino muto selettivo?
Spesso il bambino muto selettivo viene etichettato come un bambino timido, ma non si tratta di timidezza. Il bambino solitamente è estremamente spaventato di fronte a situazioni nuove o a persone che non ha mai incontrato. Prova così tanta paura che, sebbene abbia desiderio di parlare, le paroline non gli escono dalla bocca e manifesta una forte rigidità motoria accompagnata da inespressività del volto. Alcune volte il blocco della parola non gli consente di usare forme di comunicazione alternative, altre volte il bambino riesce comunque ad avere buone interazioni “mute”. Si tratta di un bambino molto sensibile che, per quanto sembri assente, è in grado di cogliere ogni dettaglio di ciò che accade intorno a sé. È un bambino preoccupato del giudizio degli altri che a volte si fa carico di colpe che non lo riguardano (“la maestra ha alzato la voce perché era arrabbiata con me”).

 
Come riconoscerlo?
Per i genitori è molto difficile accorgersi del disturbo perché in casa, o in ambienti percepiti come rassicuranti e familiari, il bambino è spesso un “chiacchierone”. Sono gli insegnanti della scuola materna ad avere il ruolo fondamentale di segnalatori della difficoltà del bambino alla famiglia. Sebbene i genitori spesso siano increduli di fronte ad un’immagine del proprio bambino così distante dalla loro, è importante da parte della scuola accompagnarli verso un percorso di diagnosi e trattamento del disturbo.
IL DSM- 5 fornisce i seguenti criteri diagnostici per individuare un bambino con mutismo sele1. Il bambino non parla in determinati luoghi, come la scuola o altre situazioni sociali.
2. Il bambino parla normalmente nelle situazioni in cui si trova a proprio agio come a casa,
sebbene alcuni bambini possano essere muti anche tra le mura domestiche.
3. L’incapacità del bambino di parlare interferisce con la sua capacità di “funzionare” nel
contesto scolastico e/o nelle situazioni sociali.
4. Il mutismo dura da almeno un mese.
5. Non sono presenti disturbi della comunicazione (come la balbuzie) o disturbi mentali
(come autismo, schizofrenia, ritardo mentale).

 
Cosa devono fare i genitori?
La diagnosi precoce è lo strumento più efficace per una rapida risoluzione del problema.
I genitori, non appena ricevono una segnalazione di forte chiusura del proprio bambino da parte della scuola materna, o non appena notano una discrepanza tra il suo comportamento verbale in casa e fuori casa, devono recarsi da uno specialista che si occupa di mutismo selettivo. Il compito dello specialista sarà quello di attivare una buona collaborazione con la famiglia e con il sistema scolastico così da lavorare in rete per una veloce risoluzione del problema. Ciascun attore implicato nel processo di cura del disturbo d’ansia sarà coinvolto a 360° e, soprattutto i genitori, saranno chiamati a mettersi in gioco anche attraverso un lavoro su di sé come singoli e come coppia genitoriale.

Una volta confermata la diagnosi di mutismo selettivo è importante che i genitori adottino un atteggiamento comprensivo e accogliente nei confronti del bambino che non RIESCE (ma vorrebbe) a parlare ed è paralizzato dall’ansia:
non forzare MAI il bambino a parlare
non ricattarlo con premi particolarmente desiderati (“se parli ti compro quel gioco…”; “se
dici ciao alla nonna domani puoi non andare a scuola”)
non punirlo di fronte al suo silenzio
non eccedere con le manifestazioni di gioia di fronte a nuove interazioni verbali
non farlo sentire in colpa (“se continui a non parlare la mamma non sa più come fare..”)
spiegare, con parole commisurate all’età, che cos’è il mutismo selettivo
– far sentire comprensione e fiducia nelle capacità del bambino
– creare il più possibile un clima rassicurante dove siano presenti un numero gestibile di
stimoli ansiogeni
condividere con il bambino nuove sfide e obiettivi considerando i suoi tempi e le sue paure
favorire l’autonomia attraverso piccoli compiti che siano in grado di farlo sentire sicuro e
capace
favorire la socializzazione invitando a casa (ambiente sicuro e familiare) i bambini con cui
interagisce a livello non verbale più spesso.

 

Cosa deve fare la scuola?
Trascorso il primo mese di scuola, dell’infanzia o primaria, e riscontrata una prevalente chiusura verbale del bambino, gli insegnanti devono segnalare la difficoltà ai genitori.
Come comportarsi in classe:
creare il più possibile un clima disteso in cui il bambino non si senta sotto pressione o
forzato a parlare
permettere al bambino di utilizzare forme di comunicazione alternative (alzare la mano,
scrivere su un foglio..)
– non creare situazioni in cui tutti i bambini devono obbligatoriamente parlare ma lasciare
loro libera la scelta di intervenire
non fare domande dirette al bambino
non trattare il bambino come se fosse invisibile o assente, ma coinvolgerlo sempre anche con
piccoli compiti quotidiani
– in caso di interrogazioni orali accontentarsi di registrazioni vocali prodotte a casa

 

Per tutte le persone che ruotano intorno ad un bambino muto selettivo è fondamentale avere
pazienza e fiducia. Il processo di risoluzione è spesso lento e graduale perché rispetta i tempi
del bambino. Aspettare e sperare che “tutto ad un tratto” il bambino parlerà non è la soluzione.

Read More

Attacchi di panico non vi temo!

L’attacco di panico è una manifestazione d’ansia estremamente intensa, breve e transitoria a cui in passato ci si riferiva con il termine “angoscia”. Un “attacco di panico” è un periodo ben limitato di intensa apprensione, paura e terrore, durante il quale vengono avvertiti almeno quattro dei seguenti sintomi:

  1. Palpitazioni e tachicardia;
  2. Sudorazione;
  3. Tremori;
  4. Sensazione di soffocamento;
  5. Dolore al petto;
  6. Nausea o disturbi addominali;
  7. Sensazioni di sbandamento, instabilità o svenimento;
  8. Derealizzazione o depersonalizzazione (spiacevole sensazione che se stessi o la  realtà circostante non sia vera o sia alterata);
  9. Paura di perdere il controllo o di impazzire;
  10. Paura di morire;
  11. Parestesie (sensazioni di torpore e formicolio);
  12. Brividi o vampate di calore.

Caratteristiche situazionali dell’attacco di  panico

Alcuni attacchi si presentano in occasione di una situazione specifica. Si manifestano durante l’attesa o durante l’esposizione ad un determinato stimolo. Per esempio, una persona con la fobia dei topi che viene a trovarsi a contatto diretto con dei topi in cantina, in quella specifica circostanza di estrema paura sperimenta un attacco di panico.  In questi casi il rapporto stimolo (topi) – risposta (ansia intensa) è spesso noto a chi manifesta l’attacco: la paura inizia e termina in concomitanza con l’esposizione alla situazione temuta.

Diverso e meno intuitivo è invece il caso degli attacchi di panico inaspettati e non provocati. L’attacco sopravviene del tutto inatteso, soprattutto le prime volte, sorprendendo e  sconvolgendo la persona che lo sta esperendo. Ha un inizio improvviso e raggiunge il massimo dell’intensità in pochi minuti. Il panico può manifestarsi mentre si è al cinema, in coda alla posta, in macchina, al lavoro o a casa. In molti casi ci si può sensibilizzare ai luoghi in cui si manifesta la prima volta e insorge la paura di stare male nella stessa situazione o in altre simili. L’esperienza soggettiva più comunemente descritta è di aver creduto di avere un infarto o un ictus e di essere sul punto di morire. Altre esperienze che vengono riferite sono di aver pensato di essere sul punto di “impazzire” o di “perdere completamente il controllo”.

In entrambe le situazioni la persona si fa accompagnare a casa o si fa raggiungere da un familiare.

Il più delle volte gli attacchi restano isolati e non lasciano conseguenze, altre volte si ripetono e innescano forte disagio e sofferenza. In quest’ultimo caso l’attacco di panico si trasforma nel tempo in un vero e proprio disturbo. Il disturbo di panico, più frequente nel sesso femminile, è generato da esperienze ricorrenti e inaspettate di attacchi di panico a cui fanno seguito, per un periodo non inferiore ad un mese, persistenti preoccupazioni di poter sperimentare nuovi attacchi e significative alterazioni del proprio atteggiamento e comportamento proprio per far fronte all’intensa preoccupazione.

Come curare gli attacchi di panico

Gli attacchi di panico, siano isolati o più frequenti, generano grande sofferenza e la sensazione di non essere in grado di gestirli e controllarli. Spesso il panico si attiva con la sola “paura di avere paura”, ossia attraverso l’ansia anticipatoria. La vita delle persone che ne soffrono diventa molto limitata e faticosa. Ma guarire è possibile. Come?

Innanzitutto, a seguito della prima manifestazione, è consigliabile sottoporsi ad accertamenti medici con l’obiettivo di escludere altre possibili cause dei sintomi provati. Questo perché altre condizioni mediche, come una disfunzione della tiroide, alcuni tipi di epilessia o aritmie cardiache potrebbero causare sintomi simili a quelli del panico.

Escluse le cause di tipo organico è fondamentale identificare uno psicoterapeuta di fiducia con cui poter iniziare a lavorare su quella sensazione di panico tanto spiacevole. La difficoltà più grande, spesso, risiede proprio nel comprendere che gli attacchi “non passeranno da soli” ed è importante affidarsi all’aiuto di un esperto. La terapia cognitivo comportamentale è la più efficace per la risoluzione degli attacchi di panico. Insieme al terapeuta, la persona che soffre di attacchi di panico lavorerà per comprendere le cause più profonde della loro manifestazione, per dare un senso e un significato nuovo ai sintomi che si presentano, e apprenderà  abilità, tecniche e strategie con cui riconoscere e gestire la situazione di panico.

Il trattamento spesso è di breve durata e non necessita di un intervento farmacologico. In alcuni casi, tuttavia, la psicoterapia può essere combinata ad un trattamento farmacologico utile sia a ridurre l’intensità e la gravità degli episodi, sia a diminuire l’ansia anticipatoria. Non appena la persona sente i suoi attacchi meno intensi e frequenti, solitamente si sente anche più capace di affrontare, col supporto del terapeuta, situazioni prima temute e paralizzanti. Attraverso questo lavoro introspettivo la persona impara ad essere pronta a riconoscere i potenziali fattori scatenanti il panico e a gestire le proprie manifestazioni emotive, corporee e comportamentali così da saper far rientrare, in autonomia, la situazione di crisi. La sensazione di maggior conoscenza e controllo di sé genererà serenità, benessere e sicurezza nei diversi contesti di vita.

BIBLIOGRAFIA

  • American Psychiatric Association (2001), DSM V, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Raffaello Cortina.
  • Sanavio E., Cornoldi C. (2001), Psicologia Clinica, Il Mulino.
  • Ghezzani N. (2012), Uscire dal panico. Ansia, fobie, attacchi di panico. Nuove strategie nella gestione e nella cura. Franco Angeli.
Read More

Vivere il presente per combattere l’ansia

L’ansia è un’emozione universale indispensabile all’essere umano. Ha una funzione importantissima: ridurre le situazioni di pericolo. Come funziona il meccanismo?

In ciascuno di noi l’ansia agisce sul nostro organismo a  livello subcosciente allo scopo di tenerci alla larga da una situazione che appare pericolosa per noi stessi e per gli altri. Come lo fa?  Generando in noi una sensazione di forte disagio che ha come fine ultimo il farci desistere dall’intraprendere quell’azione.

A dirla così sembra quindi che l’ansia cerchi in qualche modo di proteggerci.

Come mai allora per molte persone l’ansia è fonte di sofferenza e disagio a volte così forti da compromettere un sano funzionamento in alcuni ambiti della vita?

L’ansia diventa un ostacolo, anziché un aiuto, quando non anticipa più solo i pericoli reali, ma anche quelli percepiti, cioè quelli che immaginiamo possano accadere: spesso ci preoccupiamo che le cose possano andare male, anche senza alcun reale motivo.
L’ansia si trasforma così da aiuto inconsapevole e adattivo (evitare pericoli reali), in un intralcio fastidioso, prolungato e.. CONSAPEVOLE! Perché ad alimentare l’ansia per situazioni ipotetiche e immaginate sono I NOSTRI PENSIERI!  I pensieri non sono noi. Non sono reali, sono pensieri, sono solo delle possibilità. Se coltiviamo i pensieri ci creiamo delle trappole, è meglio guardali sempre con distacco.

“I pensieri che attraversano la nostra mente sono solo nuvole che ci attraversano, alcune rosa, altre nere, vanno e vengono, si spostano, spariscono, cambiano forma, dimensioni, colori.”

I pensieri ci fanno entrare in un vortice di supposizioni, paure, presunzioni…da cui è difficile uscire per tornare alla realtà delle cose. Provate a riflettere: spesso i pensieri che generano ansia sono legati ad aspetti della vita, di noi o degli altri che per un motivo o per l’altro potrebbero andare male.

Questo accade sostanzialmente per due motivi:

1.IL POTERE DELLE ASPETTATIVE.

Le aspettative giocano un ruolo fondamentale nello scatenare i sintomi tipici dell’ansia. Ci aspettiamo sempre qualcosa da noi stessi e dagli altri e ci giudichiamo se non raggiungiamo i risultati sperati. È una condizione molto comune… a chi non è capitato di stare in ufficio ben oltre l’orario solo per il timore di non essere all’altezza e quindi di non ricevere quella promozione o di essere giudicato negativamente?

 

Come fare per non essere tormentati da pensieri di questo tipo?

Sicuramente dobbiamo partire dall’imparare a non pretendere troppo da noi stessi, a fare le cose per come le sappiamo fare, a non giudicarci e dirci sempre “sei andato bene” o “sei andato male”. E’ essenziale volerci bene, accogliendoci senza infierire. La severità ci insabbia, è difficile che ci faccia migliorare. Spesso nella vita di tutti i giorni ci sforziamo di voler essere agli occhi degli altri un modello, un punto di riferimento, una persona sulla quale poter contare. Cerchiamo sempre di fare la cosa giusta nel momento giusto, di accontentare tutte le richieste che ci vengono fatte. Ma quando tutto questo ci allontana dai nostri veri desideri e ci imponiamo di essere quel modello a tutti i costi, ci scontriamo con l’impossibilità di riuscirci e, oltre all’ansia già sperimentata, si aggiunge il senso di fallimento. E’ importante per questo riconoscere e ascoltare i primi segnali della nostra ansia: che cosa ci sta dicendo? Spesso, prima di tutto, è il corpo che ci parla: lo stomaco chiuso, il mal di testa, quella cervicale contro cui combattiamo ogni giorno, il fiato corto, la stanchezza inspiegata.. il corpo ci dice che non vuole più sottostare a quella figura di perfezione a cui ogni giorno cerchiamo di aderire.

Andiamo bene così come siamo, con i nostri limiti e le nostre imperfezioni. Questo ci darà quel senso di realtà e di pace interiore che ci permetteranno di essere semplicemente presenti ad ogni azione che facciamo.

 

2.IL PASSATO E IL FUTURO

Siamo sempre proiettati verso il futuro oppure rimuginiamo sul passato, ignorando ciò che stiamo vivendo in questo momento. Quando ci si preoccupa si perde il contatto con ciò che stiamo vivendo adesso perché si concentra l’attenzione su un futuro immaginato. Quando si rimugina è più o meno la stessa cosa, tranne che ci si sta concentrando su una realtà ormai chiara, definita e cristallizzata.

Dunque siamo costantemente orientati a gestire pensieri su un passato non più modificabile e un futuro che potrebbe prendere qualsiasi direzione. Sì.. sono sempre i pensieri..

I pensieri ci portano sempre altrove…verso dei ricordi, verso delle fantasticherie, delle cose da fare…e quando proviamo a scacciarli lo fanno ancora di più.

 

Come fare a restare sul presente?

Per governare l’ansia occorre rimanere saldamente ancorati al presente assaporando il più possibile ogni emozione di ogni istante per come si presenta. Facile a dirsi. E’ vero, non è assolutamente semplice da mettere in pratica, ma dipende proprio da noi.

Avete mai pensato a quanti gesti, azioni, esperienze viviamo senza neanche accorgercene?

La ricerca oggi ci dice che la vera sfida per combattere l’ansia è vivere il presente nella piena consapevolezza. Ma cosa vuol dire essere pienamente consapevoli? Quando parliamo di piena consapevolezza ci riferiamo ad uno stato di consapevolezza che si ottiene concentrando la propria attenzione nel momento presente. E’ un modo di essere aperti alla nostra esperienza per come ci si presenta, attimo dopo attimo senza doverla necessariamente classificare in buona e cattiva. Vivere in piena consapevolezza significa abbracciare la propria vita in tutta la sua ricchezza trovando uno spazio per crescere. La nostra educazione, le nostre abitudini e certi automatismi ci spingono ad angosciarci quando la vita è difficile, e a non assaporarla quando invece è piacevole.

Sono sempre i nostri pensieri che ci portano altrove rispetto a dove siamo, con il risultato che molte volte siamo estranei alla nostra vita. La piena consapevolezza ci propone, tappa dopo tappa, di governare la nostra capacità di attenzione e di ricollegarci a tutti i nostri sensi. Il corpo gioca un ruolo fondamentale nell’essere consapevoli, un corpo che troppo spesso sentiamo solo quando grida dolore. Il primo passo per essere consapevoli consiste nell’imparare a fermarsi. Ci siamo effettivamente poco abituati, essendo sempre presi da qualche attività e sopraffatti da pensieri automatici.

Read More

L’ansia nei bambini: educare alla fiducia attraverso il gioco

Negli ultimi anni il numero di bambini e ragazzini che manifesta specifici disturbi d’ansia ha raggiunto un livello tale da costituire un vero e proprio allarme sociale. Pare che il 21% dei ragazzi di 8, 12 e 17 anni presenti una sintomatologia tale da giustificare una diagnosi di ansia.

L’ansia in età infantile è strettamente legata alla paura.

Durante l’età scolare le paure più frequenti sono per gli animali, i vampiri, i lupi, gli alieni, le streghe, gli insetti, gli eventi naturali. Verso i 7 anni inizia a comparire la paura della morte e cresce la paura legata a prestazioni scolastiche  o sportive. La fascia di età più delicata per l’emergere di preoccupazioni importanti si colloca tra le seconda e la quarta elementare. Solitamente le paure infantili svaniscono, anche se intense, abbastanza velocemente, salvo ripresentarsi prima di andare a letto, uno dei primi momenti di separazione.

Non è facile per genitori e insegnanti discriminare tra una paura normale ed un’ansia patologica: l’ansia è normale e prevedibile in certi momenti dello sviluppo, soprattutto durante i salti evolutivi, come nella separazione dai genitori, oppure quando i bambini rimangono soli al buio o durante un temporale.

Diventa un problema se interferisce con le consuete attività giornaliere, le rende più complesse e sofferenti, durante la scuola, a casa o in compagnia di altri coetanei. L’ansia non deve infatti essere avvertita dal bambino come pervasiva, troppo intensa e disorganizzante.

L’unico modo che abbiamo per capire che genere di ansia prova il nostro bambino è osservare il suo comportamento e conoscere più da vicino che cos’è e come si manifesta l’ansia.

L’ansia può essere un’emozione, uno stato fisico, pensieri o credenze perturbanti. Comprende preoccupazioni, fissazioni, tic nervosi, ossessioni…e paura estrema. La maggior parte dei bambini è ansiosa di tanto in tanto, altri lo sono quasi sempre. Il contrario di preoccupazione, o ansia, è la fiducia che andrà tutto bene.

L’ansia comporta un problema nella regolazione delle emozioni e nasce dalla tendenza a percepire l’emozione che si sta provando come inaccettabile, fastidiosa o troppo dolorosa. Le più comuni manifestazioni d’ansia  in età infantile sono:

  • Minzione frequente
  • Disturbi Gastrointestinali
  • Incontinenza
  • Pensieri ansiosi
  • Credenze pessimistiche
  • Ruminazione mentale
  • Rigidità cognitiva
  • Tic nervosi
  • Stato emotivo di allarme, sentirsi sempre in guardia
  • Timori di cose specifiche reali/immaginari
  • Tendenza a percepire il mondo come minaccioso
  • Evitare tutto ciò che può suscitare paura
  • Pattern di comportamento come timidezza, essere appiccicoso, indecisione, perfezionismo
  • Crescenti richieste di rassicurazione

 

CHE COSA PUÒ FARE UN GENITORE CON UN FIGLIO ANSIOSO?

  1. Educare con empatia

Il primo passo è l’empatia, cioè la capacità di sentire ciò che vostro figlio sente: che cosa si prova ad essere dentro la sua testa che lo fa sentire così ansioso? Senza empatia è facile respingere le sue paure. Risposte non empatiche potrebbero essere: “non essere sciocco”, “non c’è niente di cui aver paura”, “hai paura solo tu”… Chiaramente non vogliamo essere sprezzanti: vogliamo rassicurarlo, aiutarlo a calmarsi, alleviare le sue sofferenze, tuttavia il bambino può facilmente sentirsi sminuito. Dicendogli così in realtà lo stiamo liquidando. Il contrario di liquidare è RICONOSCERE: “mi sembri un po’ spaventato, vuoi darmi la mano?”, “se avessi avuto quell’ incubo anche io mi sentirei così”, “anche se alla fine è andato tutto bene so che eri molto preoccupato”. Se pensiamo ad una delle paure più comuni, la paura del buio, spesso la trascuriamo perché noi sappiamo che i nostri figli sono al sicuro… ma loro non sono in grado di aggrapparsi a quest’ idea confortante, hanno bisogno che noi accettiamo che loro sono spaventati.

  1. Non ridicolizzare

Chi siamo noi per affermare che la preoccupazione di un bambino è ridicola? Certo, i mostri sotto al letto non sono reali, ma la paura si! Il ridicolo è un vicolo cieco. Se i bambini non si sentono compresi, tra noi e loro si crea un muro che non gli permetterà di condividere con noi le paure più profonde. Molte paure infantili sono proprio così, troppo grandi da descrivere a parole, per cui spesso i bambini le trasformano in qualcosa di reale come una brutta ombra sul soffitto. Il conforto e la connessione sono le cose di cui necessitano maggiormente soprattutto prima di andare a dormire.

  1. Non giudicare

Ricordiamoci di astenerci sempre dal giudicare la legittimità delle paure: tutte le paure sono valide, poiché sono la riflessione di sentimenti che si stanno provando. Questo non significa che dobbiamo condividere, nel senso di esser d’accordo, con una paura che riteniamo non abbia molto senso, però una frase “vedo che hai paura” è sincera e non giudicante, perché accoglie la paura, non la situazione che la genera, mentre dire “perché hai paura del buio, solo tu ce l’hai!”  fa passare il messaggio che i sentimenti provati sono sbagliati.

I bambini si sentono rassicurati meglio dopo che i loro sentimenti sono stati convalidati. Quando si sentono capiti sono più propensi ad apprezzare ciò che diciamo loro. Il modo migliore e più semplice per convalidare i sentimenti di un bambino è rifletter ciò che loro ci dicono.

  1. Proiettare fiducia rasserenante

Ovviamente non possiamo pretendere che i bambini superino le loro paure se non diamo il buon esempio. I bambini hanno bisogno di vedere che mettiamo in pratica noi per primi ciò che predichiamo. Dobbiamo essere noi in prima persona a uscire dalla nostra ansia, solo così potremo sottoporre ai bambini una serie di piccole sfide, ciascuna più grande della precedente. Ciò significa inevitabilmente frustrazione e dolore, che dobbiamo imparare a tollerare.

È un lavoro difficile perché il bambino ansioso è ipersensibile all’ansia e meno sensibile alla calma delle persone: se siete in ansia vi beccherà subito, se vi mostrate calmi e comprensivi sarà comunque un percorso che richiede costanza. Potrebbe anche essere che l’esempio calmo e rassicurante non siate sempre voi genitori; a tutti capita la giornata storta, o particolarmente triste, in cui non si sarebbe molto di aiuto…in questi casi è importante affidarsi al partner o a chi in quel momento è in grado di inviare al bambino messaggi del tipo “io sono tranquillo, perciò tu sei al sicuro” che per voi in quel momento potrebbe essere difficile. È importante che i bambini ansiosi vengano sempre spinti verso nuove sfide, altrimenti gli si riconferma l’idea che in effetti un pericolo c’è.

Tutto ciò è importante che passi ai vostri figli attraverso il GIOCO. Il gioco fisico, in particolar modo, aiuta i bambini ad entrare in contatto con voi e a liberare alcune emozioni che fanno fatica ad uscire. Quindi… mettetevi per terra con i bambini e fate la lotta con i cuscini o permettetegli di rannicchiarsi su di voi! Programmare regolarmente dei momenti di giochi fisici promuovono la fiducia in se stessi e permettono loro di ricreare un senso di connessione con voi.

Read More